Due ambrosiani prossimi beati Il 30 aprile in Duomo a Milano
Due ambrosiani prossimi beati Il 30 aprile in Duomo a Milano
In che senso?
Anzitutto, dobbiamo riflettere che sotto quel cappellino di Armida Barelli c’è un volto, una storia, una situazione di vita che ha portato una giovane donna a non preoccuparsi soltanto della sua bellezza o intelligenza, con la decisione di mettere la sua formazione a servizio del Signore, delle altre donne e ragazze del tempo, e quindi, anche del bene comune, della società, della cultura. Una scelta coraggiosa, non scontata per l’epoca e che le costò anche qualche critica in famiglia. Ma lei non si scoraggiò: sotto quel cappellino c’era una testa pensante e generosità. E così anche la bicicletta di don Mario Ciceri ci dice qualcosa. È un mezzo che, ieri come oggi, ci conduce a qualche meta, che può servire in modo individualistico, oppure può farci incontrare persone che hanno bisogno, vivendo relazioni particolarmente intense, così come fece don Mario. Con la sua bicicletta girava i paesi della Brianza per incontrare i malati, per confessare, per portare a salvezza, durante il secondo conflitto mondiale, uomini che avevano bisogno di essere protetti. Una vita vissuta non per sé, ma nel ministero dedicato al bene della Chiesa e al popolo che gli era stato affidato. Mi pare che sia un insegnamento molto chiaro.
Basti pensare alla consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù, nella Grande guerra, tenacemente voluta dalla Barelli, o al foglio parrocchiale Voce amica con cui don Ciceri si teneva in contatto coi suoi giovani al fronte, nella Seconda…
Certamente. In questo momento tragico e complicato, questi due beati ci insegnano come affrontare il tempo di guerra: con amore, intelligenza, capacità di solidarietà e di relazione. È importante mantenere legami e collegamenti, anche se i tempi cambiano. Pensiamo a tante donne ucraine che quotidianamente si tengono in contatto con i loro parenti e amici. Penso che anche i due futuri beati, adesso, avrebbero agito così.
Don Mario Ciceri e Armida Barelli vivono in tempi non molto diversi dal punto di vista cronologico, ma le loro esperienze appaiono molto differenti. Secondo lei che cosa unisce queste due figure?
Il bel manifesto che la Diocesi ha realizzato per la beatificazione presenta i due volti in cui, mi sembra, spicchino gli occhi. Ciò che li unisce è il loro sguardo da cui si intuisce una capacità di cercare il bene, di scrutarlo e di custodirlo: è questo che li unisce: una laica battezzata e un presbitero, due cristiani che hanno attraversato la storia facendosi carico delle persone, ciascuno secondo il proprio percorso di vita.
Le ultime due donne ambrosiane elevate agli onori degli altari sono state Gianna Beretta Molla e suor Enrichetta Alfieri. Considerando anche Barelli, tre donne molto diverse: una professionista e madre, una suora e una consacrata laica. Questa ricchezza di carismi può aiutare a comprendere una santità che si può vivere tutti i giorni in ogni contesto esistenziale?
Sicuramente ciascuna di loro aveva aspetti molto specifici, mai “da immaginetta” stereotipata. Armida Barelli conosceva tre lingue, era una bella ragazza, aveva un’eleganza innata. Tutte e tre ci insegnano uno stile: non essere mai sciatti o banali nel vivere la fede e una santità sempre possibile. Suor Enrichetta, «l’angelo di San Vittore», per amore degli ultimi visse per tanti anni tra i carcerati. Santa Gianna si prodigò nella sua professione medica con dedizione apostolica e così – in un ambito differente, ma con la stessa generosità – si impegnò Armida.
Tra i beati, prima di don Ciceri, recentemente, c’è stato il giovane Carlo Acutis. Il prete sempre attivo in un oratorio di campagna della prima metà del secolo scorso e il santo 2.0 che ha vissuto al centro della grande metropoli raccontano bene la nostra Chiesa…
Anche questo ci ricorda il fascino e la bellezza di un lavoro educativo: un prete che conduce i ragazzi e un ragazzo che, nella sua bontà, non è stato una fotocopia. Neanche don Mario lo è mai stato nel suo vivere da prete.