Abitare poeticamente il mondo. Il grazie di don Gianluca
Abitare poeticamente il mondo. Il grazie di don Gianluca
«Gli occhi del Signore su quelli che lo temono, su quelli che sperano nel suo amore, per liberare le loro vite dalla morte e farli vivere nel tempo della fame» (Sal 33,18-19).
Come già mi è capitato di scrivere altrove, vi confesso che mi ha sempre emozionato pregare questi versetti in un tempo come il nostro, tempo di fame, appunto. In tempo di fame - è scritto - il Signore ci fa vivere. Da quasi due anni stiamo attraversando un tempo di fame più duro del solito, eppure possiamo raccogliere, con uno sguardo di fede, una consapevolezza: davvero il Signore ci sostiene anche in un tempo come questo, magari in modo discreto, silenzioso, meno appariscente di come vorremmo... però sì, Signore, tu ci fai vivere nel tempo della fame! Tempo di fame è anche questo tempo di fine settembre, tempo di ricominciamenti, chi di un nuovo anno scolastico o universitario, chi di un anno lavorativo dopo le vacanze. È tempo di fame perché sentiamo vivo il desiderio di essere nutriti da queste novità, perché dopo la sosta estiva riprende la vita di sempre, è vero, ma vorremmo un po’ tutti, credo, viverla con uno slancio nuovo, con il cuore più grande, con lo sguardo di chi sa che ogni nuovo giorno può essere occasione di bellezza e di stupore. Vorremmo appassionarci della vita, diventare cercatori di bellezza fra le pieghe, anche le più ordinarie, della nostra vita. Questo il mio augurio, per me e per voi: che in questo ricominciamento possiamo imparare ad «abitare poeticamente il mondo», come suggeriva il poeta tedesco Hölderlin.
Abitare poeticamente il mondo si oppone ad abitare tecnicamente il mondo. Francamente penso che siamo tutti stufi di sentire dati, statistiche e numeri, pur necessari certo, ma non in grado di parlare alla vita e della vita. Abitare poeticamente il mondo significa imparare ad appassionarsi delle cose piccole, delle cose di tutti i giorni e scorgere lì il nutrimento per questo tempo di fame. Scrive in un suo diario poetico Christian Bobin – voi mi perdonerete se lo cito così spesso, ma sento per lui una sintonia di cuore e di sguardo: «Io mi occupo di ciò che è piccolo piccolo. Ciò che è minuscolo, infinitesimale. Alla domanda “che fai nella vita?”, ecco quello che mi piacerebbe rispondere, quello che non oso rispondere: mi occupo delle cose piccole piccole, porto la testimonianza del filo d’erba. Il mondo, così come va (male), lo conosco e lo subisco come voi, forse un po’ meno di voi; sotto un filo d’erba si è protetti da molte cose. (...) Vedo anch’io il disastro. Come non vederlo? Il disastro è già avvenuto nel momento in cui inizio a scrivere. Prendo degli appunti su ciò che ha resistito, ed è, per forza di cose, ciò che è piccolo piccolo, ed è incomparabilmente grande, perché ha resistito, perché il fulgore del giorno, la parola di un bimbo, un filo d’erba hanno trionfato sulle realtà peggiori. Io parlo in nome di queste cose piccolissime. Provo ad ascoltarle».
Ecco ciò che ci nutre in tempo di fame, quello che resiste nonostante tutto, quello che è piccolo, che passerebbe inosservato a chi non allena lo sguardo a vedere con il cuore. Abitare poeticamente il mondo è questione di sguardo e di attenzione. «La bellezza, infatti, - scrive lo scrittore sino-francese François Cheng - questo dono che ci viene offerto senza riserve, è onnipresente. Dobbiamo saperne cogliere le manifestazioni più umili. Quei fiori anonimi che crescono nelle fessure di un marciapiede, quel raggio di sole che fa improvvisamente cantare un vecchio muro, (...) quelle fragranze e quei sapori che la memoria risveglia… Dobbiamo salvare le bellezze offerte e noi saremo salvati con esse.
Per fare questo dobbiamo assumere, come gli artisti, una postura di accoglienza, o come i santi, una postura di preghiera; dobbiamo apprestare costantemente dentro di noi uno spazio vuoto fatto di attesa attenta, un’apertura fatta di empatia, per cui saremo in condizione di non trascurare più ciò che di inatteso e insperato accade, di non sprecarlo, ma di riconoscerlo». Allenarsi a salvare bellezze inattese e insperate per essere salvati insieme con loro. In quest’anno particolare per me, dopo la mia ordinazione diaconale, non vorrei fare altro. Chiedo al Signore di essere capace di abitare poeticamente questo mondo, tanto bello quanto sofferente, di saper avere uno sguardo capace di vedere la grandezza di Dio e dell’uomo nelle cose più piccole, nei volti delle persone che incontro, in ogni filo d’erba. Chiedo insomma, per me ma per tutti, lo sguardo sul mondo e sulla vita di Gesù, il poeta di Nazareth. Ormai da parecchi anni sono rimasto affascinato da lui e mi auguro di non smettere mai di restare incantato dallo sbirciare per fessure di Vangelo le sue parole e i suoi gesti, i suoi sorrisi e i suoi pianti, i suoi turbamenti e le sue emozioni. Sì, sono convinto che Gesù, il Gesù dei Vangeli, possa aiutarci ad abitare poeticamente il mondo per trovare nutrimento in questo tempo di fame.
Davvero vorrei ringraziare ciascuno per il sostegno che ogni volta mi avete dimostrato come comunità cristiana in questi anni di cammino. Non è scontato per me, che sempre mi sento un mendicante, uno che ha bisogno, che non è sazio, che ogni giorno cerca di moltiplicare l’ascolto, ogni giorno bussa alla porta di chi può dirmi una parola per il viaggio, alla porta del mondo, di un uomo, di una donna, di un libro. Concludo con due versi di Emily Dickinson, una donna alla cui porta busso spesso. Che vi raggiungano insieme al mio ringraziamento più sincero: «Non sapendo quando l’alba verrà / lascio aperta ogni porta».